Nel lavoro del futuro le soft skills saranno determinanti
Capacità di lavorare in team, rapidità di decisione e adattabilità al cambiamento sono le caratteristiche personali maggiormente richieste dalle aziende al momento dell'assunzione. Catarozzo (Myplace Communication): «Bisognerebbe iniziare a insegnarle dalla scuola materna»
Nel mondo del lavoro di oggi si sta incominciando a dar sempre più per scontate le abilità tecniche, le cosiddette hard skills, del candidato. Una tendenza che spinge le aziende ad avere un focus sempre più marcato all’individuazione delle soft skills, quelle caratteristiche della personalità maggiormente utili agli obiettivi aziendali.
(Foto di Gerd Altmann da Pixabay)
Mario Alberto Catarozzo, formatore e business coach professionista, con Myplace Communication, società di cui e fondatore e amministratore unico, studia le soft skills, ovvero le capacità cognitivo relazionali e comunicative, abilità trasversali rispetto alle hard skill. La mission di Myplace Communication è il cambiamento sia a livello di formazione che di coaching, aiutando le aziende e gli studi professionali a sviluppare una nuova mentalità: passare dal lavoro individuale, modalità che contraddistingue da sempre gli italiani, a quella di team, insegnando a “lavorare in squadra”.
In questo passaggio è importante è l’uso della tecnologia a partire dalla connettività fino all’intelligenza artificiale, passando per lo smart working. Altrettanto importante è la flessibilità articolata sul concetto darwiniano che «non è il più forte a sopravvivere, ma colui che si adatta meglio al cambiamento».
In altre parole si studiano le condizioni di teamworking e di clima che permettono alle aziende di raggiungere gli obiettivi prefissati. Sono queste le basi del coaching cioè del pensiero strategico, ovvero il saper trovare le strategie e le soluzioni adeguate al contesto per ottenere i risultati più performanti.
Dottor Catarozzo, come si immagina il lavoro del futuro?
«L’idea che si ha del lavoro inteso come posto fisso deve essere superata. Vi è la necessità di imparare a fare più lavori, anche diversi tra loro, perché l’obsolescenza, cioè l’idea che la conoscenza diventi superata, sarà una regola, non ci si potrà più crogiolare nelle competenze acquisite nel passato. Si vivrà una sottospecie di università che dura tutta la vita, quello che viene definito nel mondo anglosassone come lifelong learning. Il lavoro del futuro, inoltre, risulterà essere molto flessibile e si farà buona parte in remoto, il cosiddetto smart working. Ci sarà una forte interazione con la rete che risulterà essere iperveloce permettendo a più persone in diversi luoghi di lavorare simultaneamente senza rallentamenti di alcun genere. Già oggi esistono aziende con dipendenti non aventi posto fisico fisso di lavoro, come un ufficio o una scrivania propria, ma che semplicemente accendono il proprio PC e si connettono alla rete per lavorare occupando il primo posto disponibile».
Vede una potenziale crescita per il ruolo del coaching nel futuro?
«Il coaching sta avendo una diffusione velocissima perché il mercato richiede decisioni veloci, continue. È tutto più complesso, quindi chi è ai vertici ha bisogno di qualcuno con cui confrontarsi. Ricordiamoci che il coach è un consulente di processi decisionali che si affianca al manager. Lo aiuta a prendere maggior consapevolezza e a sviluppare soluzioni che magari non vede da solo, ma non prende decisioni al suo posto. Il coach è un partner, non un consulente».
Secondo lei, già nelle scuole primarie ci dovrebbe essere un approccio alle soft skills?
«Per quanto mi riguarda introdurrei sin dalla scuola materna delle ore di coaching, di Pnl (programmazione neuro linguistica) e di soft skills, perché la prima cosa che bisognerebbe insegnare ai bambini è di riconoscere e gestire le proprie emozioni per diventare più consapevoli e quindi più forti. Sin dalla prima infanzia bisognerebbe imparare a parlare in pubblico, a parlare con gli altri in maniera efficace, a gestire lo stress, le tensioni e il tempo a disposizione per decidere in modo strategico. Sarebbe fantastico inserire queste tematiche nei percorsi già da giovani perché si formerebbe una popolazione molto più consapevole, molto più forte e molto più presente. Invece, al posto di accendere la fiamma della conoscenza nei ragazzi, attraverso i voti , si va creare solamente ansia e li si riempie, come se fossero degli scatoloni, di nozioni».
Senza questa consapevolezza rispetto alle soft skills, come impatteranno le nuove generazioni in un mercato del lavoro sempre più dinamico?
«Impatteranno in modo molto negativo, perché i ragazzi di oggi, che saranno i manager, gli imprenditori e i professionisti di domani, si troveranno in un mercato che va molto più veloce del passato, che ha molte più opzioni, dove c’è molta più concorrenza anche a livello internazionale e il non saper essere flessibili, non saper prendere decisioni rapide causerà molti errori. Saranno soggetti a forti stress a causa della velocità dell’evolversi dei fatti. In passato si poteva anche non avere questo background perché tutto era più lento, c’era meno concorrenza e il mercato era più semplice. Oggi le soft skills sono invece fondamentali. Anche saper utilizzare la tecnologia sarà sempre più importante. È come per una lingua straniera: se non la sai sei tagliato fuori».
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