Ebru Timtik, una morte voluta dal regime turco e dalla magistratura asservita
Un ultimo saluto da parte di Concetto Daniele Galati all’avvocato turco, morta dopo un lungo sciopero della fame per protesta contro l’oppressione del diritto di difesa e dei diritti umani da parte della Turchia
Riceviamo e pubblichiamo l’ultimo saluto ad Ebru Timtik, morta in un carcere turco dopo 238 giorni di sciopero della fame. L’articolo è stato scritto per la rivista Diritto di difesa UCPI, dall’avvocato Daniele Concetto Galati, legale del Foro di Busto Arsizio, componente della Commissione iniziative legislative di UCPI, docente di diritto processuale penale nell’Università LIUC di Castellanza.
Una toga e alcuni garofani ricoprono il feretro dell’Avvocato Ebru Timtik, simboli di una battaglia condotta sino all’ultimo respiro, emblema di una resistenza capace di superare la sofferenza fisica, eco di una voce destinata a non estinguersi.
Ebru si è spenta al termine di uno sciopero della fame, durato 238 giorni, patendo sofferenze indescrivibili: pesava ormai 33 chili; non era più in grado di reggersi in piedi; il corpo era debilitato al punto che persino l’ingestione di acqua era divenuta impossibile[1].
L’Avvocato Timtik, colpevole esclusivamente di aver difeso soggetti invisi al regime, ha subito sulla propria pelle il peso di un sistema processuale asservito all’esecutivo, battendosi, anche quando le sofferenze fisiche avrebbero legittimato la desistenza, per un futuro di legalità che non lasciasse il cittadino solo in balia di un potere statuale esercitato senza freni.
Un processo alla funzione difensiva
Nel 2017 Ebru Timtik veniva accusata, unitamente ad altri colleghi appartenenti all’Associazione Çağdaş Hukukçular Derneği (CHD – Progressive Lawyers Association), di «sostegno a un organizzazione terroristica senza farne parte». A distanza di un anno, nel settembre 2018, Ebru e i colleghi venivano liberati in attesa di giudizio e, dopo dieci ore, la seconda Corte del Tribunale penale di giustizia regionale di Istanbul emetteva un nuovo mandato di cattura, ripristinando la detenzione.I Giudici che avevano deciso per la liberazione venivano repentinamente sostituiti e l’avvocato Timtik veniva condannata ad oltre tredici anni di carcere dalla trentasettesima Corte Penale di Istanbul, competente per i processi di natura politica e presieduta da un Presidente allineato ai voleri dell’esecutivo. Le pene irrogate nei confronti degli avvocati appartenenti all’Associazione CHD ammontavano, nel complesso, a circa 159 anni.
Una decisione assunta mediante la significativa compressione dei diritti difensivi (assenza di controesame da parte delle difese, domande suggestive da parte del Presidente del Collegio, inibizione della possibilità di porre domande ai testimoni da parte degli avvocati difensori) e adottata sulla base di prove insussistenti, quali dichiarazioni rese da soggetti mai compiutamente identificati né identificabili, prove dichiarative raccolte unilateralmente in sede di indagine, acquisizione di prove documentali e informatiche di provenienza indefinita.
Un processo «farsa» che ha portato a una condanna che ha come esclusivo fondamento l’esercizio dell’attività professionale dell’Avvocato Timtik, colpevole di avere assistito soggetti presuntivamente vicini all’organizzazione di estrema sinistra DHKP-C, ritenuta terroristica. Un attacco esplicito al diritto di difesa, fondato sulla strumentale sovrapposizione fra avvocato e assistito, volto ad intimorire l’intera avvocatura, a cui veniva in tal modo rivolto un monito a non assumere la difesa di persone poco gradite al regime. In questa prospettiva la pronuncia di condanna, in cui lo svolgimento di attività difensive a favore di un elevato numero di imputati di terrorismo veniva considerato elemento dimostrativo del concorso nel reato, lascia poco spazio a diverse interpretazioni.
La Corte Regionale d’Appello confermava poi la condanna, con una pronuncia laconica, in cui si limitava ad una apodittica affermazione di correttezza della decisione di primo grado, senza analizzare i motivi di impugnazione.
La Cassazione, ad oltre un anno dalla proposizione del ricorso, non si è ancora pronunciata.
Ebru Timtik è quindi deceduta prima che intervenisse una sentenza definitiva.
Oggetto di decisioni negative sono stati inoltre i ricorsi proposti, sia alla Corte di Cassazione sia alla magistratura locale, per ottenere la scarcerazione in ragione delle condizioni di salute, nonostante una perizia ne avesse attestato l’incompatibilità con il regime carcerario. Il 14 agosto la richiesta di liberazione a scopo precauzionale veniva respinta dai giudici turchi, ritenendo che non ci fossero elementi per ritenere sussistente un pericolo per la vita di Ebru.
Inascoltati, inoltre, sono rimasti i numerosi appelli internazionali alla liberazione, fra cui quelli di UCPI e del CNF, «indirizzati a tutti i giudici possibili e a tutte le autorità competenti».
È stato altresì proposto un ricorso urgente alla Corte EDU, la quale aveva indicato al Governo turco, come termine per presentare le proprie difese, il 27 agosto, giorno della morte di Ebru Timtik.
Quella di Ebru è quindi una morte «voluta», dal regime di Erdogan, dalla magistratura ad esso asservita, da chi, sordo agli appelli per la liberazione, ha scelto di non intervenire. Un «omicidio giudiziario» figlio dell’abuso, di una violenza cieca perpetrata attraverso un sistema penale privo ormai di quelle garanzie che ne dovrebbero costituire i punti cardinali.
La toga e i garofani
È nel contesto descritto che è maturata la decisione di Ebru Timtik di ricorrere al «digiuno sino alla morte», come estremo tentativo per ottenere un equo processo. Una ribellione silenziosa per la Giustizia, intesa come limite alla prevaricazione del potere sull’individuo, alla tirannia, alla trasfigurazione del processo in strumento di repressione politica. Una lotta per il Diritto quale massima espressione di libertà, come argine invalicabile, per riprendere le parole di Francesco Carrara, alle aberrazioni dell’autorità.Un sacrificio per la collettività tutta, come si evince dalle stesse parole di Ebru: «non cerchiamo la giustizia solo per noi. Stiamo conducendo una lotta per il riconoscimento e il rispetto dei diritti di tutti».
«Ebru Timtik è immortale» è l’urlo che riempie l’etere innanzi all’Associazione Avvocati di Istanbul, mentre i dimostranti subiscono la violenta repressione di un regime che considera la commemorazione collettiva come pericolosa sedizione.
È l’immortalità di valori e principi, quelli dei Diritti e delle garanzie fondamentali, che costituiscono un patrimonio irrinunciabile per l’umanità.
La battaglia di Ebru Timtik prosegue, non solo attraverso il sacrificio di Aytac Unsal, avvocato condannato nel medesimo processo e che non si nutre dal 2 febbraio, ma attraverso tutti coloro che lottano affinché il processo penale e il diritto di difesa, storicamente inviso alla tirannia, non venga mutilato dal potere.
È la battaglia, come quella dell’avvocatura turca, di chi rappresenta i valori laici della democrazia, dello Stato di diritto, della libertà.
Nei confronti di Ebru Timtik abbiamo tutti un debito che siamo chiamati ad onorare, ricordando che quando vengono attaccati gli Avvocati e la funzione difensiva, sono oggetto di aggressione l’individuo e le sue libertà.
La toga di Ebru è allora il simbolo di chi non si sottomette, di chi non si piega all’ingiustizia, di chi è disposto a pagare qualsiasi prezzo perché vengano rispettati i Diritti di tutti, di chi è pronto a qualsiasi sacrificio per il Diritto. L’emblema di un’avvocatura che, come ricordato dall’Avvocato turco Ümit Kocasacal, non venera il potere, non si piega di fronte alla tirannia, non si pone sotto il comando di alcun governo, perché in quanto avvocati «prendiamo la nostra dal diritto, dalla giustizia e dal popolo e non dal potere politico. La nostra stella polare è la giustizia e siamo sempre alla sua ricerca. Non siamo il satellite di nessuno. Noi siamo avvocati. Non siamo né commercianti, né uomini d’affari. Noi cerchiamo il diritto, la giustizia. (…) Siamo noi che con la nostra presenza rendiamo il processo equo. Se ci fate uscire dalle aule fate uscire anche la giustizia. Qualsiasi attacco nei nostri confronti è un attacco fatto contro il popolo e alla sua libertà di cercare giustizia».
Quei garofani rossi, che accompagnano l’Avvocato Timtik nell’ora dell’ultimo addio, ricordano quelli di Celeste Caeiro che, in un luogo e un tempo ormai lontani, infilati nelle canne dei fucili, divennero l’emblema della fine di una tirannia e della conquista della libertà.
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