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Buona pensione al dottor Carlo Jannuzzi e “grazie” per aver condiviso umanità e professionalità

medico
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30 Agosto 2024

Fra i medici che a settembre non riprenderanno servizio al Circolo, c’è Carlo Jannuzzi. Jannuzzi è un chirurgo vascolare; ha maturato la pensione, lascerà le corsie, ma non la professione. Il suo compito era curare le conseguenze di malattie circolatorie. Fra queste il Diabete, una delle più subdole e devastanti piaghe del nostro tempo. Chi scrive, è un paziente diabetico. Agli inizi della malattia, più di dieci anni fa, ero curato solo nell’ambulatorio di Diabetologia dell’Ospedale. In seguito, la presenza di arrossamenti e piaghe agli arti inferiori, mi costrinsero a rivolgermi al personale di Chirurgia Vascolare. Il diabete è una brutta bestia: lavora in modo silente intaccando le strutture principali del nostro corpo. Conobbi Jannuzzi in occasione dell’amputazione del primo dito. Non avvertivo dolore: solo un gonfiore che in poco tempo divenne arrossamento e tumefazione. Da giovane, praticavo lo sport; giocavo a calcio e correvo a piedi: non pensavo di arrivare alla pensione in queste condizioni.

È proprio vero che il destino è un sentiero imprevedibile. Chi si avvicina a un ospedale è una persona che soffre. Una creatura disorientata che chiede aiuto e comprensione. Momenti nei quali la figura del medico assume grande importanza. Egli visita, parla, analizza i precedenti e, con l’ausilio della diagnostica, scandaglia il corpo in profondità. Talvolta, nel decorso della malattia, diviene amico del paziente fino a condividerne la sofferenza. L’anello che unisce i due opposti si chiama umanità. Distingue il bene dal male: gli uomini dagli animali. Carlo Jannuzzi avrebbe potuto fare il sacerdote. Prima di curare il male, ti confessa, analizzando paure e debolezze. Egli sa che, dopo un’amputazione, alla sofferenza fisica si unisce quella interiore. La certezza che nulla sarà più come prima.

Per questo, ogni giorno, il grande corridoio che funge da sala d’attesa del suo ambulatorio è affollato di gente bendata: pazienti di tutte le età provati, non solo dal Diabete, ma, nel contempo, dall’impotenza che avvertono le persone che ci accompagnano. Gentilezza e professionalità sono stati i cardini con i quali ha impostato la sua giornata di lavoro in ospedale. Mai un sospiro, un ghigno o una parola sopra le righe nei momenti di pressione: solo calma. Un modo di dire al paziente: Non temere: cercherò di aiutarti. Ora, se dovessimo scegliere due parole per definire Jannuzzi, le troveremmo in dialogo e partecipazione: un medico all’antica la cui giornata non finiva mai. La sala d’attesa del suo ambulatorio era un grande corridoio affollato di gente bendata. Fra questa, ogni tanto, c’ero anch’io. Jannuzzi mi ha curato le piaghe ed amputato tre dita. Avrei dovuto girare al largo, ma lo consideravo un amico: una di quelle creature che dovremmo conoscere tutti nella vita. Partecipa alla sofferenza.

Oggi, quando uno studente dopo la laurea si allontana dalla famiglia per cercare lavoro all’estero, i grandi dicono: è un fallimento generazionale… E allora, perché non si creano le condizioni per trattenerlo? Quando un bravo medico lascia l’ospedale: perché non si chiede a pazienti e colleghi: Chi era, com’era? La sua presenza sarebbe utile ancora?… E, quando un Presidente è stimato, perché lo si vuole ridimensionare? Non è vero che tutti sono utili, ma nessuno indispensabile: ci sono persone che valgono più di altre, ma non sono considerate. Ora, in un armadietto dell’ambulatorio di Chirurgia Vascolare dell’Ospedale di Circolo, rimane un camice bianco. Se ti avvicini, avverti un profumo che sta a metà strada fra il dovere e il rimpianto. Apparteneva a un medico che non conosceva l’Intelligenza Artificiale. In sala operatoria l’anestesista lo chiamava: Carlo. Era uno sgobbone: un mago senza cilindro che trasformava il lavoro in missione e la pena in speranza. La gente lo amava. Carlo Jannuzzi ha lasciato l’ospedale. Salutandolo, ci piace immaginarlo mentre stringe la mano a colleghi, infermieri e specializzandi. Ci piace vederlo allontanarsi per il corridoio che funge da sala d’attesa a capo chino: con la barba incolta e i capelli innevati. A capo chino… per non guardarsi intorno e leggere negli occhi dei pazienti la parola: grazie.

Fernando De Maria

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