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Coscienza emancipata borghese, “coscienza infelice” e “coscienza che lavora”

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16 Settembre 2005

Egregio direttore,
il frammento dei “Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica” di Marx sulle macchine e sul ‘general intellect’ (1857-58) getta una viva luce sul problema dei rapporti fra capitale, critica, scienza, coscienza ed emancipazione. Una riflessione sul significato e sulle implicazioni dell’analisi del pensatore di Treviri può quindi risultare utile alle forze della sinistra di classe impegnate nella preparazione e nello svolgimento del XV congresso nazionale della CGIL e, in prospettiva, alla ricostruzione di un autentico partito proletario e comunista.
Marx analizza la contraddizione del capitale fisso, cioè di un capitale che entra in contraddizione con se stesso (il capitale, infatti, per essere veramente tale, deve essere estremamente mobile). Sennonché il capitale, che pure tende, in virtù della sua natura mercuriale, alla massima mobilità e alla completa liquidità, è ostacolato dalla sua crescente fissità, che costituisce la ‘conditio sine qua non’ del dominio reale delle forze produttive del lavoro sociale. In altri termini, il ‘voler-essere-denaro’ del capitale confligge con il suo ‘dover-essere-produttivo’.
Vale la pena allora di osservare come di fronte a questa logica del capitale si rivelino sbagliate e fuorvianti le interpretazioni di ispirazione operaistica e le nozioni ideologiche su cui esse si fondano: dal mito dell’epoca postfordista a quello della società postindustriale, ambedue trasmutati, con una sorta di prodigio alchemico, in forze che pongono fine alla produzione di merci. L’origine di siffatte interpretazioni, che in questi ultimi anni hanno esercitato una vasta influenza sul movimento di classe, va tuttavia ricercata in un errore che in filosofia viene definito come ‘concretizzazione mal posta’, ossia nello scambio tra la ‘base materiale’ e la ‘forma sociale’ della produzione capitalistica di valore: scambio da cui derivano sia l’identificazione della produzione capitalistica con la produzione di merci sia l’identificazione di quest’ultima con l’industria.
Che dire poi di altre nozioni che, dal punto di vista della teoria marxiana e marxista, sono del tutto immaginarie sia per il loro significato che per il loro uso, come quella relativa alla cosiddetta fine dell’‘operaio-massa’ o come quella (che sfocia nella tesi secondo cui il sapere avrebbe sostituito il lavoro come principale forza produttiva) relativa al cosiddetto inizio di un’‘economia smaterializzata’, in cui l’accumulazione del capitale si svolgerebbe attraverso la valorizzazione e l’accumulazione del sapere e della conoscenza? A tale proposito, occorre ribadire con energia, utilizzando una distinzione del filosofo marxista Althusser (il quale ha tracciato una netta linea di demarcazione tra le nozioni ideologiche produttrici di effetti di mistificazione della realtà e i concetti scientifici produttori di effetti di conoscenza della realtà), che si tratta, per l’appunto, di nozioni ideologiche, non di concetti scientifici. Questi ultimi costituiscono invece la solida base della teoria del valore e del plusvalore elaborata da Marx, i cui corollarî sono le sottoteorie aventi per oggetto il denaro e i prezzi, l’accumulazione e la crisi, la circolazione e la caduta tendenziale del tasso di profitto.
Come sempre, sono gli strati non proletari (borghesi e piccolo-borghesi) che hanno bisogno di illudere o di illudersi, mentre il proletariato, essendo sottoposto ad una duplice espropriazione (materiale e mentale), ha bisogno della critica demistificatrice per dissolvere le illusioni di cui è prigioniero, della scienza sociale per conoscere la realtà in cui vive, nonché della coscienza, prima sindacale e poi politica, per avviare, proseguire e condurre a termine il processo della sua liberazione (laddove ‘critica’, ‘scienza’ e ‘coscienza’ sono precisamente gli addendi di quella somma dialettica che coincide con la formazione e con l’azione di una ‘volontà’ permanente e collettiva, cioè con il partito di classe).
Orbene, la domanda è questa: in che modo la divisione sociale del lavoro condiziona il percorso della liberazione del proletariato?
La risposta deve tenere conto del fatto che la divisione sociale del lavoro non determina soltanto la natura del modo di produzione, ma anche il modo di lavorare del singolo lavoratore, ossia l’organizzazione del lavoro. Quest’ultima è stata profondamente trasformata dal capitale nel passaggio dallo stadio della cooperazione semplice allo stadio della manifattura e, successivamente, della grande industria. Osservando questo processo da un punto di vista materialistico, si deve riconoscere che il ‘lavoro fisico’, sia manuale che intellettuale, è stato sussunto dall’intelligenza generale del capitale e concentrato nella classe dei lavoratori salariati, mentre l’‘attività mentale’, creativa e progettuale, è sempre rimasta, come in ogni epoca, monopolio delle classi dominanti. Accade così che di fronte al lavoro fisico di ogni tipo, caratterizzato dalla mancanza di proprietà, dunque dalla necessità della subordinazione al capitale, si ponga il lavoro mentale, caratterizzato dalla proprietà delle condizioni generali e particolari della produzione. Ed è proprio questa situazione la base della coscienza emancipata, poiché la prima situazione permette soltanto di esprimere una coscienza immediata delle esperienze quotidiane.
Certamente, per creare condizioni universali di ricchezza e di cultura occorre un grande sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale. Tuttavia tale sviluppo può fecondare la storia del genere umano solo nella misura in cui l’intelligenza generale sia liberata dalla sua forma capitalistica e non si contrapponga più alla grande massa dell’umanità priva di proprietà. Fin quando ciò non avverrà, resterà intatta la divisione tra la coscienza immediata delle esperienze quotidiane, connessa direttamente al lavoro fisico (“pura coscienza da gregge”, per dirla con Engels e Marx), e la coscienza emancipata capace di giungere, grazie alla correlazione con il lavoro mentale, sino al pieno godimento della vita.
Il problema consiste, dunque, nel comprendere politicamente e teoricamente quali siano le condizioni storiche affinché la coscienza immediata di tipo antagonista si emancipi e si realizzi come coscienza critica rivoluzionaria. La corretta soluzione di questo problema non può non impegnare qualsiasi forza di classe consapevole dei limiti che contrassegnano la coscienza immediata perfino degli strati superiori del proletariato. Il grado e la qualità di tale coscienza mostrano con chiarezza l’àmbito ristretto entro cui lavoratori pur sindacalmente avanzati esprimono il processo della propria autoemancipazione critica: un àmbito in cui la prassi antagonistica, anziché elevarsi a scienza, decade a mera ideologia e in cui l’opposizione politica, anziché sostanziarsi di conoscenze e progettualità, si riduce a fideismo.
D’altra parte, è pur vero che, nella misura in cui il lavoro mentale rimane monopolio della classe dominante, la coscienza emancipata resta espressione della conservazione e riproduzione dei rapporti sociali di proprietà e di dominio esistenti. Altrettanto vero è che il lavoro fisico resta subordinato al capitale. Perciò Hegel, che è un grande filosofo, il padre della dialettica moderna e, sotto questo profilo, il maestro di Marx, Engels e Lenin, definisce nella “Fenomenologia dello Spirito” la “coscienza infelice” come “essenza duplicata e ancora del tutto impigliata nella contraddizione”, che scopre, nel suo ritornare in se stessa, la propria “libertà ancora irretita entro la servitù”. Hegel precisa inoltre, delineando il percorso della liberazione di tale coscienza, che “solo un espandersi oltre il singolo può essere universale formare o coltivare”, giacché “il senso proprio è pervicacia”. In effetti, aggiunge il filosofo di Stoccarda richiamando, per connotare la dialettica di signoria e servitù, una massima biblica (“initium sapientiae, timor domini”), se l’inizio della sapienza sta nella “paura” del signore, è pur sempre il lavoro che forma. Parimenti, se è incontestabile che la verità della coscienza indipendente è la coscienza “servile”, è altrettanto innegabile che solo “la coscienza che lavora giunge all’intuizione di se stessa come indipendente”.

Eros Barone

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