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Il “made in Italy” realizzato nel Bangladesh

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8 Luglio 2016

Non vi è il minimo dubbio che l’eccidio terroristico compiuto in Bangladesh con la morte di nove italiani meriti una condanna senza appello. Abbiamo infatti di fronte un terrorismo islamico cieco e sanguinario, finanziato e sostenuto per anni da ben individuabili settori imperialisti (gli USA, ‘in primis’) al fine di destabilizzare interi paesi attraverso il massacro di persone inermi. Un terrorismo che spara nel mucchio e che è del tutto estraneo a rivendicazioni progressiste, mero riflesso dell’imperialismo ed ostacolo micidiale per una lotta rivolta all’emancipazione dei popoli oppressi.
Sennonché, visto che i ‘mass media’ hanno accuratamente evitato di trattare questo aspetto, sarà lecito domandare che cosa ci facessero tanti italiani, imprenditori o lavoratori del settore tessile, in Bangladesh. E la risposta è che non è affatto un caso isolato la presenza sempre maggiore delle imprese tessili del Bel Paese nel Sud-Est asiatico: una presenza e un attivismo che proiettano un’ombra pesante sul “made in Italy”, divenuto ormai un marchio di sfruttamento planetario.

Emerge così uno stretto legame tra le condizioni di lavoro insalùbri, i bassi salari, il lavoro minorile, gli orari massacranti e un settore che è, insieme con l’agro-alimentare, un’eccellenza della produzione nazionale, potendo vantare una forte tradizione imprenditoriale e un riconoscimento mondiale. Infatti, a séguito della delocalizzazione che ha provocato la crisi del settore tessile e delle piccole aziende italiane sub-appaltatrici dei grandi marchi, queste ultime oggi preferiscono appaltare i propri lavori a veri e propri centri di massimo sfruttamento in cambio di un maggiore profitto. Il Bangladesh è uno di tali centri. «Nel periodo gennaio-febbraio 2016 – si legge in un dispaccio dell’AdnKronos – ammontava a 274 milioni il valore delle importazioni dal Bangladesh all’Italia. Oltre 271 milioni di questi, quasi il 99%, è rappresentato da prodotti tessili, articoli di abbigliamento e articoli di pelle. Per altro, secondo gli ultimi dati disponibili dell’agenzia Ice, in crescita del 13% rispetto allo stesso bimestre del 2015. Non è un caso, infatti, che più della metà degli italiani morti nell’assalto terroristico di ieri sera a Dacca, in Bangladesh, lavorasse nel tessile. La Lombardia è una delle regioni dove pesa di più, in termini di ricchezza prodotta, l’interscambio commerciale con il Bangladesh, che rappresenta circa il 15% del totale nazionale. Secondo gli ultimi dati disponibili della Camera di Commercio di Milano, nella prima parte del 2015 gli scambi valevano 132 milioni di euro, di cui 80 di import e 52 di export, un valore in crescita del 94% rispetto a 5 anni fa, 64 milioni di euro in più. Le importazioni, che riguardano per il 97,3% prodotti tessili, hanno vissuto un boom lo scorso anno e sono salite del 30% con punte del +496% a Cremona e del +264% a Pavia.»
Come non rammentare allora la tragedia che si verificò a Dacca nel 2013, dove oltre 1100 operai, tra cui molte donne e molti bambini, morirono nel crollo di una fabbrica? Allora un’importante catena di abbigliamento italiana risultò coinvolta, in quanto appaltatrice di decine di migliaia di capi, come mostrarono le foto del crollo e le etichette ben evidenti, nonostante un tentativo iniziale di negare ogni coinvolgimento. 
Sia ben chiaro che ciò non giustifica in alcun modo l’orrendo attentato dell’Isis, ma non si evochi, per piacere, la filantropia o la passione per i viaggi. Alcune stime economiche hanno verificato che sui capi di abbigliamento prodotti tramite subappalti nel Sud-Est asiatico le grandi marche riescono a ricavare un profitto che supera di oltre venti volte il costo pagato alla fabbrica che esegue il lavoro. Una polo, ad esempio, venduta in Italia a 80 euro ne costa appena 4,5. Di questi una minima parte finisce ai lavoratori, pagati meno di 2 euro al giorno. Ma il ‘dumping sociale’ realizzato dall’imperialismo italiano con la strategia delle delocalizzazioni non agisce solo nei paesi della periferia mondiale, ma anche nel nostro stesso paese. A questo riguardo, per capire che cosa sta accadendo in Italia basta fare un giro nei distretti tessili di un tempo, oggi ridotti a un cumulo di macerie o rilevati da aziende che usano manodopera straniera costituendo delle vere e proprie ‘zone economiche speciali’ (come a Prato), tollerate dallo Stato, in cui le condizioni di lavoro del Sud-Est asiatico sono di fatto importate in Italia.

E’ infine opportuno sottolineare che il settore tessile si differenzia da altri settori industriali per via della produzione etero-centrata. Mentre le aziende italiane di meccanica, automobili, farmaceutica ecc., producono principalmente per il mercato locale, «in molti comparti del “made in Italy” – scrive l’Istat nel rapporto annuale del 2014 – quote rilevanti della produzione realizzata all’estero sono ‘riesportate’ in Italia, in particolare nei settori tessile e abbigliamento (58,2%)…». In sostanza, si delocalizza all’estero una parte di semilavorati per poi apporre il marchio in Italia: il prodotto resta “made in Italy”, ma la maggior parte del lavoro è svolta fuori dall’Italia per consentire maggiori guadagni alle grandi imprese. Le piccole, quando non falliscono, si convertono in agenti intermedi che operano per conto di grandi gruppi, i quali, dal canto loro, mascherano le loro pesanti responsabilità coprendosi dietro lo scudo dei rapporti con i ‘terzisti’.
Enea Bontempi

Commenti

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  1. Avatar
    Scritto da Felice

    Una lettera coraggiosa che descrive una amara verità.

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