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La mia Montagna

Generico 24 Jun 2024
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28 Giugno 2024

Nel nostro sentire, si nasconde il più profondo bisogno di Natura.
Il mio andar per monti è un travolgimento di sensi, non sempre piacevoli, ma pieni di verità.
Abitavo in un piccolo paese sul lago a ridosso delle montagne; in quel luogo tutte le porte erano aperte, come se per i bambini non esistessero divisioni.

La natura era parte della mia vita, sembrava un mio prolungamento, passavo più tempo nei prati che nelle aule di scuola, si imparava, osservando quello che succedeva intorno a noi.
A quei tempi la primavera ci esplodeva dentro, non passava giorno senza rincorrere una farfalla o giocare con le lucertole. In ogni luogo o vicolo nasceva un’avventura.

Era normale costruire capanne nei boschi e armarsi fino ai denti di fionde, archi e bastoni. Le battaglie iniziavano all’alba e finivano al tramonto, poi, pieni di lividi, si tornava a casa insieme, non esistevano più vinti né vincitori, solo buoni amici.
Alla sera, tutte buone erano le mamme, accoglienti e sempre pronte a metter un cerotto e dar da mangiare ai piccoli eroi stanchi e affamati.
Arrivata la buona stagione non si perdeva occasione di farsi un bagno nel fontanile o un giro in “barchèt” (barca dei pescatori locali).

La sera prima disegnavamo la mappa del tesoro e la mattina dopo, quando i pescatori erano rientrati dalla pesca, come pirati rubavamo loro la barca e salpavamo per mille avventure, che in gran parte dei casi finivano nel lago e noi insieme, restando fradici fino a sera.

Con la fine della scuola il paese prendeva vita in tutte le ore del giorno, ma quelle serali, di solito proibite, davano spettacolo con interminabili partite di “guardia e ladri” per le vie del centro.
L’autunno volava via come le foglie e in un attimo era inverno.
Quando arrivava la neve, non si dormiva di notte per l’eccitazione, si usciva a piedi scalzi ai primi fiocchi. Il paese diventava candido e la mattina presto si andava con il bob per le vie meno frequentate oppure ingaggiavamo mega battaglie di palle di neve; sempre mal vestiti, zuppi e con i geloni.

Prima di tornare a casa, si passava a trovar la nonna, si finiva in mutande davanti alla stufa economica: i panni appesi sui ferri del cannone, mani e piedi dentro la stufa per scaldarsi, come fossero dei tizzoni ardenti.

Quando ghiacciava il lago, tutto si fermava: i pescatori non calavano le reti e nel paese sembrava una festa. Tutti scendevano al “Lago di Piazza” per vedere il miracolo, noi bambini non perdevamo l’occasione di esplorare tutte le rive e vedere il paese dalla prospettiva del nostro caro lago che ci guardava dal suo mondo sommerso.

Il gioco preferito era quello di rompere il ghiaccio con i mezzi più disparati; si partiva da piccoli sassi fino a far squadra per spostare monoliti. Il risultato era sempre uno, ahimè: caderci dentro.

Crescendo sono arrivati i pattini e le prove di coraggio a chi andava più lontano sul ghiaccio, sempre più fine e fragile. I suoni del ghiaccio erano parole chiare che ti tenevano lontano dai pericoli. Poi l’hockey, con bastoni artigianali e via via sempre più professionali, con vere squadre, pronte a tutto per un goal.
Non c’erano limiti alla fantasia e all’avventura.

Davanti al lago c’erano le montagne, come spettatrici silenti, e noi le guardavamo ammaliati tutti i giorni: erano le nostre compagne di giochi oltre che maestre, insegnandoci il tempo e le stagioni.
Poi il paese ha iniziato ad essermi stretto, ero diventato più consapevole della grandezza del mondo: il vento del cambiamento era arrivato.

Era finalmente il momento di conoscere quelle montagne lontane che da sempre ci guardavamo in faccia. Era il momento di portar là quel bisogno di giocare, con lo stesso entusiasmo di quando ero piccolo, e poter vivere in quei luoghi nuove avventure.
La roccia e lo scialpinismo hanno fatto da cornice a giorni e notti indimenticabili, ma ho avuto anche la fortuna di incontrare degli ottimi compagni di viaggio che rendevano facile la partenza!

Da quel momento, anche la sola collina é diventata un terreno di conquista: di correre, camminare, arrampicare, non si poteva farne a meno, come l’aria che riempie la bocca dopo una corsa affannosa. La voglia di allenarsi insieme e fare gruppo ha fatto il resto.

Sono arrivate così le prime vie difficili, seguite da esplorazioni, e le prime chiodature, con un vecchio trapano a batteria. Per fare più buchi collegavamo una batteria a 24Volt, che solo a pensarci ti faceva venire il mal di schiena. Quante volte si faceva “bim bum bam” per chi la portasse, quante volte si arrivava al colle così stremati che ci si sdraiava a guardare il cielo e a far correre i pensieri.

In quegli anni, gli zaini pesavano più delle teste.
Vuoi per la fatica o perché come aquile stavamo sempre in cielo; alla fine della giornata le braccia ci toccavano per terra e cercavano di accorarsi al pavimento, quasi come se i piedi non bastassero a tenerci radicati. Ma, appena le braccia allentavano la presa, si riaprivano le ali.

Mi concedevo anche qualche bella salita alpinistica in alta quota, più per la compagnia che per il resto. Perché la neve d’estate mi pareva perdesse il suo fascino, come se non appartenesse a quella stagione, figlia di prati verdi, dei fienili pieni e delle mucche al pascolo.

Poi, a fine autunno, una calma apparente prendeva il posto della frenesia estiva, si tirava la plastica in palestre fumose, piene di magnesite e scarpe maleodoranti. Si passavano intere serate a “tirarsi le dita” sui pannelli, raccontarsi le avventure estive e i sogni per il nuovo anno. Si tornava a casa solo quando le mani non erano più in grado di tenere neanche un boccale di Tennent’s, vai a capire le ragioni.

Dopo arrivava l’inverno, dal lago vedevo sbiancare le montagne e si riaccendeva in me la voglia di avventura. Un fuoco bianco mi nasceva dentro, era il momento di affilare i coltelli e preparare le pelli; si ricomponeva l’attrezzatura e la compagnia del circo bianco.
Iniziava la danza silenziosa dello sci alpinista.
Le carovane partivano di notte alla conquista delle cime più svariate. Il buio favoriva riti magici e propiziatori, prima di inforcare gli sci. Sciamani in giacca a vento davano le prime predizioni sulla giornata, direzione vento, neve e temperature; solo se il fato fosse stato dalla nostra parte, si sarebbe partiti.

Si saliva rapiti dai suoni del bosco e l’ambiente sembrava magico come se fosse disegnato dalle fate.
Alle prime luci dell’alba, era come vedersi per la prima volta: i colori diventavano vivi e si vedeva sul manto bianco una tribù colorata, ognuno aveva la sua andatura, ma tutti erano in cerca di sé stessi nel camino verso il cielo.
Dalla cima si, poteva solo puntare a valle, tracciavamo linee immaginarie, alla ricerca del pendio migliore; e giù a tirare curve a cuore stretto e gambe dure; la velocità passava i pensieri, sempre più giù, fino la fine!

Quegli anni, erano grovigli di neve e roccia, così fitti che se avessi provato a stringerli nel pugno non sarei riuscito a chiuderlo.
Potevo solo lasciare le mani aperte pronte ad accogliere.
Ancora oggi le stagioni camminano in me.
Quelle figure silenti, il lago e le montagne, sono spettatrici di un bambino diventato uomo, che non ha mai smesso di giocare e innamorarsi della vita.

In fondo non è cambiato niente!

Il gioco dei grandi finisce in ugual maniera:
Si sta fuori dall’alba al tramonto,
in compagnia di amici fraterni,
si torna a casa pieni botte e lividi,
ma con cuori grandi.

Pietro Toniato

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