“Pepin, ven giò ch’in chi anca mò”, un ricordo del deportato civile Franz
24 Gennaio 2025
Era geloso dei propri ricordi. Bisognava trovarlo in buona vena per farsene raccontare qualcuno.
Io lo conobbi ai tempi dei grandi successi elettorali del PCI, era responsabile del magazzino della Federazione provinciale (varesina) del Partito dove erano custodite le attrezzature necessarie per l’allestimento di iniziative in sale pubbliche e le feste dell’Unità.
Lo chiamavamo affettuosamente Franz.
Diceva che da quando aveva incominciato a lavorare, lavorava alla Macchi di Varese, in viale Aguggiari.
Era operaio meccanico specializzato. Un mattino dei primi giorni del gennaio 1944 Franz fu chiamato negli uffici della direzione, si trovò di fronte ad un militare in divisa tedesca che gli parlò in tedesco.
Franz non capì… Immaginò però che gli chiedesse del suo lavoro nella fabbrica. Disse allora di poter rispondere con uno “schizz” e subito il tedesco gli passò un foglio ed una matita. Tracciato lo schema di un pezzo meccanico sagomato nel proprio reparto, Franz poté lasciare l’ufficio.
Uscì rasserenato e anche orgoglioso di aver saputo sbrogliare una situazione delicata nei confronti di un gerarca nazista.
Passarono poche ore e nel pomeriggio Franz fu prelevato di forza dal suo posto di lavoro, spinto nel cortile della fabbrica e caricato su un furgone. Cominciò così la sua drammatica e dolorosa deportazione in Germania.
L’area entro cui Franz fu internato era molto vasta, occupata dai capannoni di una fabbrica e dalle baracche dove alloggiava la mano d’opera C’erano polacchi, francesi, italiani, russi. Tra i russi c’erano anche donne. Erano stati tutti strappati a terre piegate sotto l’occupazione nazista.
Il lavoro cui erano sottoposti era durissimo: 12 ore al giorno, nessuna attenzione alla sicurezza e all’igiene, nutrizione insufficiente. La sorveglianza delle guardie tedesche era implacabile.
Per questo, un saluto, una parola, un gesto tra gli internati era difficile da esprimere e trasmettere.
Commozione profonda colse Franz quando un russo, passandogli vicino, gli sussurrò “Pepin ven giò, ch’in chi anca mò” (tradotto “Garibaldi, vieni giù che i nemici sono ancora qui”) ripetendo l’implorazione a Garibaldi in dialetto varesino che lui gli aveva fatto conoscere nei giorni precedenti.
Maria Agostina Pellegatta
(foto di: Di Fratelli Alinari – „Vasabladet“, 9 October 2011.Archivi Alinari, Firenze, Pubblico dominio, Collegamento)
Accedi o registrati per commentare questo articolo.
L'email è richiesta ma non verrà mostrata ai visitatori. Il contenuto di questo commento esprime il pensiero dell'autore e non rappresenta la linea editoriale di VareseNews.it, che rimane autonoma e indipendente. I messaggi inclusi nei commenti non sono testi giornalistici, ma post inviati dai singoli lettori che possono essere automaticamente pubblicati senza filtro preventivo. I commenti che includano uno o più link a siti esterni verranno rimossi in automatico dal sistema.